venerdì 6 marzo 2015

Morgan, il bastone e la carota


Dopo X Factor, torna alla sua musica. Ma non pensate che abbia intenzione di parlarne. Bisogna accontentarsi di inseguirlo. Ascoltando il flusso di coscienza di un uomo impossibile. E che è rimasto un poeta

Mi tocca aspettarlo per quasi tre ore, quest’uomo assieme santo e maledetto. Ne osservo finalmente l’improbabile arrivo in skateboard da dietro le vetrine di una pizzeria proprio dietro casa sua.

Irrompe sudato e stanco, in testa il cappellaccio floscio che gli fa da amuleto, le mani nere di qualcosa che sembra fuliggine: «Ho fatto dei lavori in casa, mi deve scusare», poi si stringe nelle spalle, azzarda un sorriso cui è rimasto aggrappato un che di fanciullesco, in un istante è già perdonato.

Marco Castoldi da Monza, in arte Morgan, in tutti questi anni non ha ancora imparato a schermarsi, a proteggersi. Per tutta la sera mi sussurra verità nascoste implorandomi con gli occhi di non rivelarle.

Il prossimo progetto è la versione teatrale della sua bella autobiografia: lo spettacolo si chiamerà Il libro di Morgan dal vivo, sul palco con lui saliranno iBluvertigo, per mettere assieme parole, immagini e musica «anche se la forma canzone è morta, e oggi tutto è dissonanza».

Strappargli anticipazioni sul disco – che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi – è un’impresa impossibile, così come fargli una vera intervista. Morgan è gentile e saccente, presente e sfuggente, va blandito e redarguito; si rifiuta di rispondere ma vuole raccontare, ben consapevole della differenza.

«Lo sa», esordisce provocatorio, per tastare il terreno, «che se avessi una compagna, e se la mia compagna mi volesse tradire, non potrei oppormi? Se tu non mi desideri più», ammonisce puntandomi il dito contro, «non c’è nulla che io possa fare. Posso solo chiederti di dirmelo, per non sentirmi totalmente escluso dalla tua orbita. E poi, poi posso sperare che tu ritorni».

Sua sorella Roberta, che gli fa (anche) da editor e gli è seduta a fianco, alza gli occhi al cielo. Lo adora, ma ora lo sgrida perché lui vorrebbe mangiare con le mani. Cerco di farlo parlare dei suoi amici, dei suoi maestri: «Tante volte ascoltando la musica di Battiato me lo sono immaginato come padre. Mi chiama Morganetto, sa? Ci sentiamo alle cinque del mattino: lui è già sveglio, io non sono ancora andato a letto. Le sue parole sono un’enciclopedia di istruzioni per l’uso dell’esistenza. Da lui vorrei imparare la capacità di fare delle scelte. Io normalmente, tra due strade possibili, le scelgo tutte e due. E le seguo entrambe. Poi tutto si biforca, ed è il caos».

Gli dico che non mi pare poi a disagio, nel caos. «Credo profondamente nel suo potenziale creativo, ma poi mi trovo davanti a una massa urlante che mi sovrasta e rischia di inghiottirmi. E io, per quanto possa illudermi nei momenti di autoesaltazione, non sono Dio, cioè non sono Bach». Bach: un altro suo mito, mi spiega, «assieme a Massimo Ranieri. Persona superiore, sa? Fa il Riccardo III a teatro. Quando gli chiedo un consiglio mi dice: “Marcus, lo sai che ti amo, però ora giurami che questa cosa non la fai”».

Poi c’è Celentano: «Nei momenti difficili mi ha sostenuto. Mi preparava la minestrina con le sue mani». Gli chiedo cosa direbbe della sua vita se dovesse tracciare un bilancio provvisorio. «Non mi piace», sussulta. «Ho cinque processi in corso, non posso espatriare, mi hanno tolto la patente. Ma come genitore sono responsabile delle creature che ho messo al mondo».

Si sente triste? «Ho la tristezza di desiderare una famiglia da fuori. Di rivedere qualcosa di perduto, che puoi osservare dall’esterno perché all’interno non hai accesso. Spesso piango. Non in pubblico. Piango per cose piccolissime, magari per un odore che sento e mi strugge. Allora penso al Cristo con il suo capo insanguinato, a quel che ha passato, e smetto di autocommiserarmi».

Provo a fargli notare che qualche soddisfazione ce l’ha avuta, di recente. Per esempio da X Factor. Simon Cowell, che l’ha ideato, ha detto: «Senza Morgan, X Factor Italia non esisterebbe. Morgan è un tesoro nazionale».

Lui guarda nel piatto, ormai vuoto, che ha davanti. Poi strizza gli occhi e mi fissa serio: «Simon Cowell è piuttosto intelligente e molto spregiudicato. È uno che ha le idee e, soprattutto, che le ha messe in pratica. È un genio dei nostri giorni. Qualche mese fa ho capito che X Factor Italia sarebbe decollato perché mi hanno riferito che nell’ascensore interno di casa sua aveva attaccato un sacco di ritagli di giornale su di noi. L’ascensore interno in casa Cowell è il termometro di quel che gli interessa. Ho pensato di fare la stessa cosa da me ma non ho un ascensore, allora ho tappezzato le scale con post it pieni di riflessioni sulla musica. Il mio androne delle scale è pieno di fogliettini quanto il collo di Fedez di tatuaggi. Il collo di Fedez è sorretto dai suoi tatuaggi».

Gli cito un altro collega, Mika. «Mika è ok. Ho notato che lo infastidiscono i rumori forti. È un ragazzo educato. Una volta dopo una discussione avuta in trasmissione mi ha preso da parte in camerino e mi ha detto serio: “Guarda che gridare fa schifo”».

Morgan si riscuote, guarda l’ora, sgrana gli occhi, sembra il Cappellaio matto di Alice. «Devo scappare. Mi aspettano». Lo prego di svelarmi, prima, qualche altro progetto. Così, in camera caritatis.

«Vorrei aprire una scuola di musica per bambini, qui a Monza. Lei me li manderebbe i suoi figli?». Fa una pausa. «E poi c’è il teatro. Ho telefonato a Massimo Ranieri. “Massimo, voglio fare teatro”». E lui? «Mi ha detto: “Marcus, ci sentiamo un’altra volta. Tante cose, eh. Ciao”». L’ho richiamato: «“Lasciami almeno scrivere le musiche del tuo spettacolo”. E lui: “Mi spiace, ci sono già i Pink Floyd”».

Morgan ride, si alza, mi saluta e fa per uscire. Poi si volta, ci ripensa: «Una cosa ancora gliela dico. Si ricordi che l’amore non è una cosa che conta. Semmai, è una casa che canta». 

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